5.
82 Quali colombe dal disio chiamate 5. 83 con l'ali alzate e ferme
al dolce nido 5. 84 vegnon per l'aere, dal voler portate;
5.
85 cotali uscir de la schiera ov'è Dido, 5. 86 a noi venendo per
l'aere maligno, 5. 87 sì forte fu l'affettuoso grido
5.
88 «O animal grazioso e benigno 5. 89 che visitando vai per
l'aere perso 5. 90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
5.
91 se fosse amico il re de l'universo, 5. 92 noi pregheremmo lui
de la tua pace, 5. 93 poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
5.
94 Di quel che udire e che parlar vi piace, 5. 95 noi udiremo e
parleremo a voi, 5. 96 mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
5.
97Siede la terra dove nata fui 5. 98 su la marina dove 'l Po
discende 5. 99 per aver pace co' seguaci sui.
5.100
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende 5.101 prese costui de la
bella persona 5.102 che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
5.103
Amor, ch'a nullo amato amar perdona, 5.104 mi prese del costui
piacer sì forte, 5.105 che, come vedi, ancor non m'abbandona.
5.106
Amor condusse noi ad una morte: 5.107 Caina attende chi vita ci
spense». 5.108 Queste parole da lor ci fur porte.
5.109
Da che io intesi quell'anime offense, 5.110 chinai 'l viso e tanto
'l tenni basso, 5.111 fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
5.112
Quando risposi, cominciai: «Oh lasso, 5.113 quanti dolci pensier,
quanto disio 5.114 menò costoro al doloroso passo!».
5.115
Poi mi rivolsi a loro e parla' io, 5.116 e cominciai: «Francesca,
i tuoi martìri 5.117 a lagrimar mi fanno tristo e pio.
5.118
Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri, 5.119 a che e come
concedette amore 5.120 che conosceste i dubbiosi disiri?».
5.121
E quella a me: «Nessun maggior dolore 5.122 che ricordarsi del
tempo felice 5.123 ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
5.124
Ma se a conoscer la prima radice 5.125 del nostro amor tu hai
cotanto affetto, 5.126 farò come colui che piange e dice.
5.127
Noi leggevamo un giorno per diletto 5.128 di Lancelotto come amor
lo strinse; 5.129 soli eravamo e sanza alcun sospetto.
5.130
Per più fiate gli occhi ci sospinse 5.131 quella lettura, e
scolorocci il viso; 5.132 ma solo un punto fu quel che ci vinse.
5.133
Quando leggemmo il disiato riso 5.134 esser baciato da cotanto
amante, 5.135 questi, che mai da me non fia diviso,
5.136
la bocca mi baciò tutto tremante. 5.137 Galeotto fu 'l libro e
chi lo scrisse: 5.138 quel giorno più non vi leggemmo avante».
5.139
Mentre che l'uno spirto questo disse, 5.140 l'altro piangea; sì
che di pietade 5.141 io venni men così com'io morisse.
5.142
E caddi come corpo morto cade.
ANALISI
Analizzando
il quinto canto dell'Inferno della Divina Commedia di Dante, che
racconta la storia di Paolo e Francesca, notiamo come ai due
amanti, con una similitudine, vengano paragonate due colombe,
sospinte dal desiderio di amore, che ad ali spiegate vogliono
raggiungere il nido agognato. Così le due anime si allontanano
dalle altre dov'è presente anche Didone per raggiungere Dante.
Francesca si rivolge al poeta ringraziandolo della visita e
dicendo che se Dio li avesse ascoltati e se fosse stato loro
amico, avrebbero chiesto pietà e pace per il suo spirito. La
giovane si rivolge a Dante dicendo “O animal grazioso e
benigno”, cioè: o tu che non sei soltanto anima, ma anche corpo
cortese e nobile d'animo. Il verso “noi che tignemmo il mondo di
sanguigno” (ovvero: noi che bagnammo la terra con il nostro
sangue) è il primo riferimento diretto alla storia dei due
giovani, morti per il loro amore. Francesca acconsente, seppur la
cosa le provochi dolore, a raccontare la loro storia a Dante ed al
suo accompagnatore (Virgilio). Dopo una breve parentesi sulla città
natale di Francesca (Ravenna), la giovane parla dell'amore che li
ha uniti anche nella morte. Francesca si lamenta del modo in cui
le venne tolto il corpo, del modo in cui venne privata della vita
con una morte così istantanea che non le lasciò il tempo per
pentirsi del suo peccato. L'amore e il desiderio che provava per
Paolo non si sono spenti nemmeno ora che vivono nell'Inferno,
quello stesso amore e desiderio che li ha condotti alla morte, ma
il dolore di Francesca sembra trovare un po' di sollievo al
pensiero che la Caina (il girone dei fratricidi dove vi è anche
Caino) attende coloro che tolsero la vita ai due amanti.
Nell'udire il racconto di quell'anima addolorata Dante china il
capo in segno di umiltà nei confronti di quell'amore così grande
(in quel momento, probabilmente il poeta ripensa all'amata
Beatrice) e allo stesso tempo di compassione per la sua fine.
Rispondendo al suo accompagnatore che gli chiede cosa pensa, Dante
lascia trasparire la sua sensibilità d'animo soffermandosi sulla
sofferenza che questo grande amore ha causato ai due giovani,
tanto da renderlo infelice e piangente. Ma la curiosità del poeta
lo spinge a voler sapere come i due giovani vennero a conoscenza
dei reciproci sentimenti. Francesca risponde che nulla le provoca
più dolore del ricordarsi della felicità che ha provato nella
sua attuale miseria e sfortuna e che questo Virgilio dovrebbe
saperlo. Ma visto che Dante brama tanto la conoscenza dell'origine
del loro amore, la giovane accetta di narrare seppur tra le
lacrime come un libro fu la causa del loro amore. La storia di
Lancillotto e Ginevra e del loro bacio spinse i due giovani a
baciarsi e a commettere il peccato. Come per gli amanti del libro
il sensale (l'intermediario) d'amore fu Galeotto, così per Paolo
e Francesca furono il libro ed il suo autore. Mentre Francesca
parlava Paolo piangeva e la pietà che si impossessò di Dante era
così forte che lo fece svenire come cade un corpo privo di vita.
L'etica e la moralità di Dante gli fanno collocare i due amanti
nell'inferno per l'amore dei sensi (carnale) che li lega, ma non
gli impediscono di provare pietà per questi giovani così
sfortunati. Amore e pietà sono i temi fondamentali di questo
canto: non possono essere separati e se mancasse uno di questi la
narrazione di Dante forse non otterrebbe più lo stesso effetto
sul lettore. La condanna di Dante è forte e presente, ma tiene
sempre conto della fragilità degli uomini; il passato del poeta
riaffiora aiutandolo nel giudizio, senza però condizionarne le
sentenze, facendolo anzi partecipare con dolore e tristezza
all'infelice destino dei due giovani.
DIVINA
COMMEDIA
La
Divina Commedia è un poema allegorico, iniziato probabilmente
intorno al 1307 e compiuto negli ultimi anni di vita. Fu chiamato
dal poeta Commedia per i suoi aspetti linguistici e stilistici (fu
composto in volgare anziché in latino aulico, cioè colto) e
perché si conclude felicemente. Ebbe dai posteri, fin dal
Trecento, l'epiteto di 'divina', consacrato dall'edizione veneta
del 1555. È diviso in tre cantiche (Inferno, Purgatorio,
Paradiso) di trentatré canti ciascuna, più un canto
introduttivo. Conta 14.233 versi in terzine incatenate di
endecasillabi. Soggetto letterale dell'opera è il viaggio
immaginario dell'autore nell'oltretomba, compiuto nel 1300, anno
del giubileo, con la guida di Virgilio nei primi due regni e di
Beatrice e S. Bernardo nel Paradiso. A tale viaggio corrisponde
allegoricamente quello dell'umanità, sorretta dalla ragione
(Virgilio), verso la felicità terrena, simboleggiata dal Paradiso
terrestre, e illuminata dalla rivelazione (Beatrice), di cui è
depositaria la Chiesa, verso la felicità eterna.
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